Conoscenza e "sapere" digitale
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Se, in effetti, Internet ha molto da offrire a chi sa ciò che cerca,
è anche in grado di completare la stupidità di chi naviga senza bussola.
(L. Laplante)
Solo se conosce la ragnatela, la mosca
può evitare la fine che il ragno si attende.
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La conoscenza e Internet – la conoscenza tramite Internet: grande tema, non adeguatamente indagato, che va ben oltre la superficiale schermaglia fra sostenitori e detrattori della Rete.
Anzitutto: la conoscenza è sempre frutto di mediazione. Se, ad esempio, i nostri sensi non fossero attivi, quale rapporto potremmo avere con il mondo e, dunque, quale conoscenza? (1) Se fossero inerti, saremmo privi dei mezzi fondamentali che ci mettono in rapporto con il circostante. Non sapremmo, addirittura, che esiste un circostante intorno a noi.
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Se la conoscenza non può prescindere dalla mediazione, la questione decisiva è: qual è e quant’è la mediazione che ci permette di conoscere?
In altre prole: quale è il “peso” – l’interferenza – del mezzo (la mediazione, appunto) rispetto al fine (la conoscenza)?
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L’uomo, in generale, è mediato da sempre nel suo rapporto con il mondo. Non solo tramite i sensi, ma anche attraverso gli strumenti che, via via, si è costruito. Sin dai primordi: a partire dalla clava, dal fuoco, l’uso della ruota ecc.
Ma, per un tempo di gran lunga prevalente (all’incirca fino a due-tre secoli fa, quando l’industrializzazione prese a correre) la mediazione rispetto alla realtà, seppure crescente, rimaneva limitata, allo stato, potremmo dire, embrionale.
L’uomo solcava i mari, scopriva nuove terre, estraeva minerali e forgiava metalli, realizzava invenzioni, faceva la guerra e rendeva altri schiavi, ma doveva in larga misura obbedire alla natura.
(Se il vento non avesse soffiato nelle vele, non avrebbe potuto raggiungere… le “Indie”).
L’uomo era il nano, la natura restava il gigante. La natura rimaneva il mediante attraverso cui l’uomo poteva crescere.
Per la maggior parte del tempo trascorso sulla Terra, l’uomo mediato era parte connessa al contesto mediante. Non indistinguibile, ma quasi.
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Oggi, nel pieno del dominio dell’apparato tecnico-scientifico, il rapporto è divenuto radicalmente diverso.
J.K. Galbraith conia nel 1968 il termine “tecnostruttura”, per definire la nuova, complessa articolazione del potere industriale. Il neologismo, come si vede, è recente.
Attraverso le tecnostrutture, arterie dell’apparato scientifico-tecnologico, l’uomo moderno ha assunto un potere tale da modificare in profondità la natura – compreso se stesso, con le biotecnologie – fino al punto da poterla distruggere (con l’inquinamento, i mutamenti climatici, le armi nucleari).
Il rapporto si è invertito: l’uomo mediato, ora, definisce il contesto mediante, lo ridisegna, lo sconvolge, lo produce.
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E’ stato calcolato che negli ultimi due-tre decenni sono state prodotte e diffuse più notizie che in tutti i cinquemila anni precedenti.
Più che verosimile. Basti pensare alla potenza e velocità dei media moderni (dalla televisione ai computer, ai giornali, ai periodici ad alta tiratura ecc.) in rapporto ai papiri, alle tavolette di cera, al lavoro dei copisti medievali su pergamene.
L’effetto determinato (solo in apparenza paradossale) è che all’aumento di “notizie” corrisponde una diminuzione della conoscenza.
Siamo “informati” di più, ma sappiamo di meno. Non a caso, anche nei paesi ad alta scolarizzazione, sta crescendo l’analfabetismo di ritorno: non ne sono immuni neppure certi intellettuali…
L’impoverimento conoscitivo è il risultato di un meccanismo semplice e micidiale.
Il bombardamento quotidiano che ci raggiunge non è costituito da informazioni, ma da “frammenti di notizie”, che si inseguono, si accavallano, l’una scacciando l’altra (come chiodo scaccia chiodo) o sovrapponendosi in un tourbillon incessante.
Nella rappresentazione, gli avvenimenti non sono più vicende che si svolgono, originate da cause legate a un contesto, si sviluppano secondo certe dinamiche e si concludono in un dato modo, magari dando inizio ad altre.
Nel vortice della ridda, gli avvenimenti accadono (sono già accaduti) e basta. I nessi fra loro, come i legami fra le loro parti, scompaiono (o rimangono in ombra).
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Questa triturazione informativa è uno dei fattori più potenti che stanno alla base della distruzione della memoria storica.
Le vicende umane (di una persona, di un popolo, del mondo) non appaiono più nel succedersi contraddittorio di intrecci e di interconnessioni dinamiche, ma si perdono in un guazzabuglio di accadimenti scollegati – fra loro, e fra loro e il circostante entro cui si sono sviluppati – sì che la storia scompare, sostituita da un assemblaggio astratto e artificiale di momenti.
Privato in questo modo della memoria storica, l’uomo contemporaneo non sa da dove viene, perché è lì in quel momento – perché è in mezzo a quel groviglio di contraddizioni entro cui vive – e non sa dove andare, perché in una direzione piuttosto che un’altra.
Ignorando il passato è inerme di fronte al futuro. E’ prigioniero del presente come totalità (essenziale) di riferimento.
Una persona così, soprattutto se giovane, è una manna dal cielo per il potere (qualsiasi potere): può essere manipolata e condizionata con assoluta facilità. Basta guardarsi intorno.
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E’ questo il contesto in cui va valutata Internet. Strumento – mezzo – potente. Neutro? Assolutamente no. Niente al mondo è neutro, nemmeno il concetto che afferma che niente è neutro…
Perciò, come per tutti gli strumenti e i mezzi, decisivi sono l’uso che ne viene fatto e lo scopo verso cui converge.
Che Internet offra la straordinaria opportunità di far circolare idee e notizie, di collegare e far comunicare persone distanti fra loro, di coagulare convergenze (si consideri, per esempio, il ruolo avuto dalla Rete soprattutto nella fase iniziale delle “Primavere arabe”), di poter allargare la dialettica democratica (vedi lo stato nascente del Movimento 5Stelle) ecc., qualifica le potenzialità positive della sua funzione.
Ma da qui all’entusiasmo (del tutto disinteressato?) di Bill Gates – “Internet è il più grande veicolo di autodivulgazione di tutti i tempi” – ce ne corre.
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Evgeny Morozov, dopo L’ingenuità della Rete, ha scritto nel 2013 un nuovo libro (To Save Everything, Click Here), dove mette alla berlina “l’Internet-centrismo” e quello che chiama il suo “soluzionismo”, ovvero la pretesa secondo cui la metafisica del Web “piuttosto che analizzare i problemi che vuole risolvere, punta a raggiungere la risposta prima ancora che la domanda venga posta”.
E aggiunge che “se si ascoltano i suoi più rumorosi apostoli, la Silicon Valley sarebbe tutto un risolvere problemi che altri hanno creato”, mentre, secondo lui, è evidente che “le tecnologie digitali non contengono soluzioni già pronte a dilemmi sociali e politici che esse creano”.
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Che siano i tweet a… liberare e salvare il mondo è illusorio. Per converso, Internet – a riprova della non neutralità dello strumento – può essere usata da governi e istituzioni per controllare (e reprimere) più efficacemente i cittadini.
Questo avviene non solo nei Paesi a regime autoritario, Cina e Iran per esempio. E’ stata clamorosa la rivelazione, emersa nel giugno 2013, secondo cui l’amministrazione Obama (attraverso il sistema Big Data, un colossale immagazzinamento di dati) aveva posto sotto controllo i contatti telematici dei cittadini americani e di altri Paesi, dalle e-mail all’uso delle carte di credito, con la collaborazione dei giganti della Rete, da Microsoft a Google a Facebook.
L’asserita finalità antiterrorismo non può oscurare il fatto che si tratta della manomissione più generalizzata della privacy delle persone. Quanti altri governi hanno già seguito (o seguiranno) l’esempio?
Né va dimenticato che la Rete può essere impiegata per manipolare le coscienze, attraverso la divulgazione di notizie precostituite e punti di vista artefatti sulle più svariate questioni, che vengono diffusi con una capillarità e ripetitività ossessive, al punto da prefigurarsi, ed essere accettate, come verità inscalfibili.
In questo senso la pervasività di Internet potrebbe rivelarsi ancor più perversamente efficace di quella già ampia delle emittenti televisive usate a fini di propaganda.
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Un altro degli aspetti pericolosi di Internet è quello di indurre a credere che quanto vi appare è sempre e comunque il risultato di una libera e genuina comunicazione. Come se non fossero crescenti, nel Web, il ruolo e il lavorio degli influencer, gli orientatori – e, spesso, i manipolatori – dei messaggi e delle notizie.
Sì che il falso, a volte, è congegnato così bene da apparire come “verità” incontrovertibile, così logica e naturale da non poter essere messa in discussione.
Una ragione in più, questa, per cui quando ci si accosta alla Rete è bene farlo senza ingenuità e con la massima capacità di discernimento.
La scuola e gli educatori dovrebbero mettere in guardia gli adolescenti (persino i bambini) e i giovani in proposito, fermo restando che anche molti adulti meriterebbero la stessa attenzione.
I Co.Re.Com (Comitati Regionali per le Comunicazioni) possono svolgere in proposito una funzione molto positiva, sia con iniziative di monitoraggio sia con interventi di divulgazione circa le potenzialità e, insieme, i rischi della Rete. (2)
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“Ognuno di noi” – ha scritto Nicolas Carr, tra i maggiori studiosi della “stupidità” indotta dal “multitasking” digitale – “dovrebbe trascorre più tempo nella concentrazione, adottando un’abitudine mentale che favorisca la calma e la riflessione”.
E ha aggiunto: “A livello individuale la terapia è ridurre l’uso di Internet”.
In effetti: spegnere, ogni tanto, il televisore, chiudere il computer (telefonino compreso) e magari aprire un libro possono diventare un atto responsabile di salvaguardia personale – e collettiva.
Per quanto mi riguarda, lo faccio spesso e ne traggo cospicuo giovamento. Bisognerebbe tenere sempre in mente il seguente principio: chi naviga sempre non conosce la terra ferma. E si priva, perciò, dell’orizzonte della completezza concreta.
Web significa, propriamente, “ragnatela”, “tessuto”. La ragnatela della vita e il tessuto delle esperienze reali vanno inevitabilmente al di là della loro trasposizione – e riduzione – telematica.
Dimenticarlo, o pensare il contrario, è una delle forme moderne, più alte, di alienazione tecnologica. La felicità… digitale come surrogato della difficile felicità esistenziale.
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La frenesia della vita quotidiana, oggi onniavvolgente, ci porta a non vedere che, in quanto mediato, l’uomo contemporaneo e dimidiato. (Proprio perché la mediazione tecnologica mai prima d’ora si era spinta così lontano).
Dimidiato: dimezzato. Dalla prigionia in cui le macchine lo costringono. Isolato dai circuiti telematici che lo separano dalla vita reale. Ostaggio della lontananza da ciò che davvero esiste: la sua vita è sotto tutela altrui.
Hans Georg Gadamer, considerato il padre dell’ermeneutica moderna, ha dichiarato in proposito: “La tecnica è una nuova forma di schiavitù. Tutta l’informatica è una catena intelligente di schiavi. Siamo tutti schiavi, dei media e dei nuovi media.
Schiavi, però, non come nell’antichità, ma in modo ben più raffinato: siamo schiavi pensando di essere padroni. Tante informazioni, troppe informazioni non danno il tempo di pensare” (corsivi miei).
Eccola, ribadita autorevolmente, quella triturazione informativa di cui si è già detto. (3)
La rapida congerie di Internet come l’automobile: utile per spostarsi e viaggiare, ma l’eccesso di velocità può portare a sbattere.
“Tutta l’informatica è una catena intelligente di schiavi”: colpiscono l’assolutezza e la perentorietà dell’affermazione. Può essere considerata beneficamente scioccante: induce a riflettere in profondità sull’ambiguità del “sapere” digitale.
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Quanto alla tesi secondo cui “la tecnica è una nuova forma di schiavitù”, è necessario intendersi bene. La tecnica – e, dunque, anche la telematica e il cyberspazio, che ne sono le propaggini più sofisticate – va da sé che può aiutare l’uomo o imbrigliarlo e perderlo.
Nella visione prometeica della cultura occidentale la tecnica è stata elevata al ruolo di creatrice fondamentale (di opportunità, di progresso, di libertà). Così abbiamo espulso dalla nostra consapevolezza la sua componente di pericolo e di illusorietà.
Téchne – da cui il termine “tecnica” – era la parola che per i greci indicava arte, mestiere, professione, perizia nel trasformare, abilità nel costruire. Ma, oltre a ciò – ecco la decisiva ambiguità – téchne significa anche, in senso deteriore, artificio, tranello, inganno.
Dunque: già ai primordi della civiltà greca – quella civiltà che per tanti aspetti sta alla base della cultura occidentale, che oggi regola il mondo – e fin dalle origini della parola che la definisce, la tecnica appare e viene pensata nella sua doppia e inscindibile dimensione: arte e artificio; costruzione e macchinazione; perizia e tranello; fabbricazione e simulazione; creazione e inganno.
La parola latina techna, addirittura, mutua dal greco soltanto il secondo significato, esprimendo unicamente artificio, trama, furberia, astuzia, raggiro. Non a caso il termine è usato frequentemente dai commediografi romani, da Plauto a Terenzio.
E’ assai significativo che l’uomo antico, nel suo rapporto molto più diretto (molto meno mediato) con la natura, percepisse con limpida chiarezza il carattere ambivalente della tecnica, il suo aspetto costruttivo non disgiunto da quello ingannevole.
L’uomo moderno – il contemporaneo in particolare – ha smarrito quella consapevolezza.
Ormai mediato e dimidiato dalla tecnica, la vede essenzialmente come processo di costruzione della realtà e non scorge (più) la sua portata di simulazione artificiale.
Ecco perché quella telematica, se non si sta bene attenti, può trasformarsi nella più sottile e, insieme, avvolgente delle catene, proprio mentre ci dà la sensazione di fornirci le ali per il volo.
In altre parole: la téchne della Rete porta con sé opportunità e pericoli, possibilità di allargare la conoscenza e di frantumarla, impoverendola. Soprattutto i “nativi digitali” riusciranno a utilizzare il primo elemento e ad avere coscienza di evitare il secondo?
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Nell’era del dominio della tecnica la parola coscienza ha subito a sua volta un crescente impoverimento semantico.
Il termine latino conscientia indicava sì coscienza e conoscenza, ma nel senso determinato di con-sapevolezza, cognizione in comune e persino di complicità.
Straordinario: nel suo significato originario la coscienza indica il con-sapere, la conoscenza che si realizza non solo come risultato di un rapporto fra soggetto e oggetto, ma soprattutto come com-prensione di quel rapporto, che sarebbe privo di senso se scollegato con gli altri.
Sì che la coscienza si forma non già come separazione, ma come com-plicità fra esistenti, co-gnizione in comune, con-nivenza della – nella – scoperta.
Senza comprensione della totalità, non si ha coscienza in senso autentico, ma solo la falsa coscienza della frantumazione, ovvero delle cose separate. Senza “con-scientia”, non si dà coscienza. (4)
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Grande, dunque, il mare del Web, ma infinitamente più vasto – immenso – quello della conoscenza e della coscienza.
N O T E
1) Sul complesso tema della conoscenza il pensiero filosofico scava da sempre ed è immaginabile che la riflessione in merito sarà inestinguibile.
Per Platone conoscere equivale a stabilire con l’oggetto un rapporto di identità e così è, nella sostanza, per Aristotele. Agostino (e poi Tommaso) sostiene che “ogni conoscenza (notitia) deriva insieme dal conoscente e dal conosciuto”, mettendo sullo stesso piano l’oggetto e il soggetto conoscente.
Per Hegel conoscere è il processo che unifica il mondo soggettivo con quello oggettivo e che porta alla coscienza l’unità necessaria dei due.
Kant ritiene la conoscenza un’operazione di sintesi, ovvero “l’atto di riunire diverse rappresentazioni e comprendere la loro molteplicità”.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, relativo alla meccanica quantistica, mette in rilievo la “turbativa” generata dalla mediazione conoscitiva.
Al di là dei vari angoli visuali e delle diverse accentuazioni, la visione della conoscenza come risultato di mediazione sembra una costante della riflessione filosofica. E non solo.
2) Cfr., per esempio, Stili di vita online e offline degli adolescenti, a cura del Corecom dell’Emilia Romagna, Internet@minori@adulti a cura del Corecom Toscana, Media e minori a cura di quello trentino.
3) Pensare e riflettere richiedono calma e tempo. Il pericolo indotto dalla Rete è di accontentarsi di poco, ovvero di lasciarsi irretire nella sua sempre più veloce superficialità che, così, può dare, al massimo, erudizione, che è radicalmente lontana dalla conoscenza.
Sebbene il Web fosse di là da venire, la questione era già stata messa a fuoco da Eraclito, che ha sentenziato: “L’erudizione non fa la conoscenza”. E va notato che la traduzione, al solito, taglia le ali alla ricchezza di significato delle parole greche.
Ciò che il filosofo scrive, nel frammento 82, più propriamente è: “L’erudizione non istruisce – ou didaskei - l'intelletto”. Vale a dire: l’erudizione, non alimentando la mente, la atrofizza.
E’ la conoscenza, non l’erudizione, che vivifica l’intelletto. E il sapere è molto più del conoscere.
4) Per un approfondimento del tema, cfr. il mio Coscienza globale. Oltre l’irrazionalità moderna, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2006.
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