Felice Blasi

Per non cadere nella genericità o nella ripetizione, data la vastità del tema del “digitale”, questa nota vuole semplicemente essere una postilla al saggio di Mario Capanna, meditato a lungo e discusso con l’autore, al margine dei nostri periodici incontri del Coordinamento dei Corecom italiani, di cui entrambi facciamo parte. Credo, in questo modo, di venire incontro alla sua definizione di coscienza come sapere in comune, con-sapevolezza, “con-scienza”, quasi una connivenza e complicità, nel sapere e del sapere.
Chiedersi se il web sia una società, oppure no, è un modo diverso di porre quel concetto di “mediazione” da cui parte il ragionamento di Capanna e che si sviluppa nelle idee di «uomo mediato», «conteso mediante», «uomo dimidiato» e, infine, «triturazione informativa». Quando Capanna dice che oggi l’uomo inverte il rapporto tradizionale tra individui e natura, producendo il contesto mediante (in questo caso la Rete o il digitale, assunti qui e di seguito come sinonimi), non sta negando al web carattere di società, perché non si può contestare alla Rete di svolgere funzioni di socializzazione, di mediazione, di costruzione di legami sociali, di cui si potrebbero elencare infiniti esempi. Tra l’altro, se concordiamo nel favorire i processi che rendano la scienza un bene comune, una scienza partecipata (come nelle intenzioni di una recente ricerca collettiva curata dallo stesso Mario Capanna, Scienza e bene comune. Oltre lo spread della conoscenza), non dovremmo riconoscere al sapere digitale di essere un veicolo di conoscenza a forte densità sociale?
È il fenomeno del cosiddetto “sovraccarico cognitivo”, o “information overload”, che Capanna riassume (par. 5) insieme ad altri aspetti della Rete (falsa neutralità di Internet, ruolo degli influencer, uso politico del Big Data, ecc.), a generare una triturazione informativa che non si trasforma in sapere e che rende l’uomo dimidiato, dimezzato. Se l’effetto finale è un uomo dimidiato, de-mediato, bisogna concludere che il web non è una società, perché ha evidenti aspetti di desocializzazione, di frantumazione dei legami sociali, di cui, anche in questo caso, si potrebbero offrire numerosi esempi, persino drammatici, come la cronaca ci dimostra.
In altre parole, alla fine ci si ritrova sempre di fronte alla domanda: il Web è una società, oppure no? È una domanda che non ci si pone in modo diretto, con la profondità che meriterebbe, nonostante apologeti della Rete e suoi avversari, utopisti e neoluddisti, entusiasti e apocalittici, promotori dell’“always-on-line” e difensori delle virtù dell’off-line, tutti si dividano sul modo reciprocamente opposto, ma ugualmente scontato, di rispondere a questa domanda. Sia gli uni che gli altri, hanno ottimi argomenti per sostenere la propria posizione e criticare quella avversaria. In realtà, di tutti gli approcci al web e al digitale, da quello filosofico (la Tecnica, il postmoderno, ecc.), a quello utopistico (le visioni dei “guru” del digitale), pedagogico (i pericoli del web, le guide genitoriali), economico (business delle informazioni), giuridico (implicazioni penali), moralistico (apologetico vs critico), quello ancora da sviluppare è proprio l’approccio sociologico, e di sociologia della conoscenza digitale in particolare: perché anche laddove c’è una sociologia, il taglio è più di analisi culturale che di sociologia empirica o di psicologia dei comportamenti. Non a caso, la cattedra napoletana di Derrick de Kerckhove è definita di “Sociologia della cultura digitale”.
Ora, io non so dire qui se il web possa o meno definirsi come una società, ma è certo venuto il momento di indagare il digitale e i suoi saperi con tutta la consapevolezza e i metodi della ricerca sociologica e psicosociale, dai classici ad oggi. Bisogna studiare in che modo vengono elaborati, trasformati e acquisiti nella fruizione digitale gli elementi che definiscono i saperi, come credenze, dottrine, linguaggi, affermazioni, dati e fatti, categorie e immagini mentali, fattori culturali, scientifici, letterari, ideologici: e per far questo non bastano più né gli articoli di attualità e costume, né le opinioni dei futurologi informatici. È necessario andare oltre i "guru" e le accattivanti formule filosofeggianti, iniziando serie ricerche sul campo circa il condizionamento della Rete nei saperi di senso comune e nella pratica dei saperi scientifici e professionali.
Da questo punto di vista il richiamo di Capanna al ruolo dei Corecom (par. 10) è quanto mai opportuno: oltre che organismi di garanzia del mondo delle comunicazioni, queste strutture possono diventare istituzioni di conoscenza del mondo digitale, con il vantaggio di poter approfondire con specifiche ricerche locali la geografia sociale del web, insieme a università, associazioni, osservatori regionali. Questo aprirebbe tutta una serie di questioni metodologiche: come si fa ricerca di sociologia della conoscenza sul web e sul social web? Quali sono, e come incidono, le differenze territoriali nel digitale? Quali strumenti scientifici di monitoraggio adottare? Che rischi ci sono che l’analisi sociologica della conoscenza digitale non si trasformi in uno strumento di controllo del web? Quest’ultimo interrogativo manifesta la sproporzione tra le poche conoscenze empiriche disponibili alle università e agli organismi di garanzia democratici, e l’enorme capacità delle imprese private del settore, e dei governi, di analizzare nel dettaglio, o censurare e bloccare, i contenuti e i flussi delle comunicazioni digitali, come nota anche Capanna.
Non c’è dubbio, in conclusione, che il digitale stia creando e modellando saperi, forse non corrispondenti ad un’idea classica di “Sapere”, ma che comunque svolgono quelle funzioni che il sapere deve svolgere nelle relazioni umane: definizioni di ruoli e identità, creazione di senso e integrazione sociale, elaborazione di bisogni e interessi, motivazioni e comportamenti. A questi saperi bisogna dedicare più attenzione empirica. Chiedersi che ne sarà di quell’idea classica di sapere, significa porsi una questione che è etica e politica, più che epistemologica o di sociologia della conoscenza: significa chiedersi che ne sarà dell’umanesimo e della cultura umanistica nel mondo digitale. E qui si riaprirebbe tutt’altra rimodulazione del tema, che pure va aperto, ma nella chiarezza che si tratta di opzioni di valore, di impegno culturale, di visione etica.

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