Net-surfing: una matassa per l'Ego-mania

Giulio Casale

(leggi in pdf)

(vai alla pagina iniziale del dibattito)

Ristorante-pizzeria. Esterno giorno, primo pomeriggio. Un piccolo gruppo di studenti forse diciottenni, zaini in spalla. Sembrano aver esaurito gli argomenti da conversazione. Tra loro si crea un silenzio un po’ troppo prolungato, che in qualche modo va spezzato. Così un ragazzo prende a canticchiare qualcosa, un motivetto insistito, ripetuto. Allora una delle ragazze presenti, a dire il vero con aria anche un po’ annoiata, gli chiede: “Ma insomma cos’è che canti?” Quello le dice titolo e autore. Lei, già armata di smartphone nella mano sinistra, inserisce con la destra le informazioni ricevute nel motore di ricerca dell’apparecchio. Si sente una musica, lei guarda il video. Forse per venti secondi, forse. “Ah” aggiunge sovrastando il suono “pensavo un’altra roba: cioè, questo qui mi pare un po’ una …” e seguono cosiddette parolacce. Poi però nella lista dei video consigliati e potenzialmente correlati accanto a quello ricercato ne individua un altro, secondo lei molto più interessante. Ci clicca dentro. Ma immediatamente dopo si sente dire “No ma allora guarda questo …” ed è già un altro titolo ad attirare l’attenzione, a questo punto quasi generale (intorno al display di quel telefono si forma in effetti un capannello), e poi di nuovo un altro ancora, suggerito da un’amica lì accanto, in un soprassalto di entusiasmo. E così via. Netsurfing, una delle varianti.

È tutto on-line del resto. Inutile negarlo: Internet è piacevole, talmente affine al consumo però. Non c’è parola, tema, branca del sapere, o personaggio storico, o meglio ancora essere vivente sul quale sia impossibile effettuare ricerche. In pochi secondi riceviamo risposte (e tante: e quale scegliere, con quale criterio) su ogni singola nostra curiosità. Piacevolmente: così come è piacevole un ben riuscito spot pubblicitario, e la Rete abbonda tra l’altro d’inserzioni, e con la stessa logica commerciale. Ovvero con l’illusione di soddisfare un nostro bisogno. E soprattutto restando in superficie. Fare surf nella Rete è proprio cavalcare l’infinita serie di onde recanti matasse d’informazione, verrebbe da dire stando però bene attenti a non sbrogliarla del tutto quella matassa, a non approfondire mai veramente qualsivoglia argomento, pena la fatica della riflessione, del ragionamento: pena l’annegamento.

Il tempo medio di capacità di concentrazione si riduce ogni giorno di più. La forma dialogica di confronto tende oggigiorno a venire sostituita da monologanti aventi a disposizione ormai solo poche centinaia di vocaboli per esprimere l’intero proprio universo, monologanti che ricorrono presto all’insulto nei confronti di chi osi interromperli, o di chi abbia semplicemente un’altra visione delle cose.

I recenti dati Ocse su scolarità e capacità intellettive degli italiani sono raccapriccianti: non sappiamo più scrivere né far di conto, non leggiamo e non siamo in grado d’interpretare criticamente un testo. E quanto c’entra il “sapere digitale” in tutto questo? È vero o no che ormai ogni ricerca scolastica e persino quasi ogni tesi di laurea si rivela a guardar bene quale mero, più o meno mascherato, “copia e incolla” di ciò che si trova on-line?

In compenso, in questo contesto, dilagano i social-network. E qui vien da pensare. Che l’ego-mania affliggesse l’occidente del mondo era cosa nota da un po’. Ammesso che si dia ancora una reale contrapposizione tra oriente e noi. Ma con i social-network la tecnologia assume la caratteristica irresistibile di assomigliare a un’estensione del nostro Io, in uno specchio di Narciso tanto più appagante e elettrizzante quanti più saranno i “mi piace” o il numero in aumento dei “followers” sul nostro profilo.

La nostra vita, filtrata e ripulita a piacimento, diventa simile a un film (di successo?) che proiettiamo per il nostro stesso gusto (per la nostra mania di grandezza), invitando però alla visione tutti “gli amici” possibili. E intanto, certo, diamo un’occhiata anche ai film degli altri, “interagendo” un minimo con loro. “Un unico, grande circolo vizioso. Lo specchio ci piace e noi piacciamo allo specchio. Diventare amico di una persona su Facebook significa semplicemente includerla nella nostra personale sala degli specchi adulatori” (Jonathan Franzen).

E poi quanti amici può avere una persona nel corso di una vita? E che fine stanno facendo i significati delle parole? Amici!? Migliaia!? Mah. (Si dice: movimenti quali Occupy Wall Street o la Primavera Araba sono nati su Facebook, d’accordo, e assolvendo casomai in parte proprio a quell’idea di con-scientia che ci sottopone Mario Capanna. Creando comunità, persino oltre il tempo e lo spazio. Ma cosa resta già pochi mesi dopo di tutte quella energie, di tutte quelle esperienze? Non è che dai proclami e dalle speranze condivise virtualmente si debba poi scendere necessariamente alla concretezza dello stare insieme e della condivisione reale delle cose, e in questo caso: della politica attiva, con tutte le sue difficoltà?).

Su Twitter idem come sopra. Di là dell’evidente rischio auto celebrativo di chi si metta a scrivere (di chi cinguetta, letteralmente), aver pensato alla misura di 140 caratteri disponibili per comunicare e comunicarsi al mondo è semplicemente affine ad una logica che svuota in radice la categoria stessa della complessità.

A meno che. A meno che non irrompa la passione. Quella predisposizione a patire e insieme proprio ad amare qualcosa o qualcuno, molto prima che ad essere o a sentirsi amati. Quel piccolo sacrificio di sé che prevede l’autentica passione, quella ricerca faticosa e però esaltante, quell’ossessione amorosa che ti spinge a cercare, a scavare, a dedicarti all’altro, all’oggetto amato, desiderato, indagato da cima a fondo e poi di nuovo, nel tentativo magari utopico di conoscere veramente e per intero, mettendo in gioco tutto te stesso. Ciò che rimarrà pur sempre il contrario della vanità, negazione della mera piacevolezza, e del dilagante e conseguente tecnoconsumismo.

In fondo, quello che spaventa di più gli adulti nei cosiddetti nativi digitali è spesso la mancanza di passioni autentiche, si guarda a loro riconoscendoli quasi sempre come un poco apatici, non portatori coscienti di qualcosa per cui “valga la pena”. Qualora ne individuassero una di passione allora però si riaprirebbe anche la speranza, per loro e per tutti. Del resto hanno “a disposizione di click” il più formidabile archivio aggiornato di saperi e esperienze e conoscenze che sia mai esistito. La rete, internet.

AllegatoDimensione
73.22 KB