Nonno Google e papà Facebook: la sostituzione dei ruoli

Filippo Lucci


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La cultura digitale ha cambiato l’ordine interno alle parole conoscenza e sapere nonché le forme con le quali vengono prodotte e diffuse.

È indubbio infatti che l’accessibilità alla conoscenza sia di gran lunga facilitata dalla mediazione esercitata attraverso la ragnatela del web, che è in grado di creare molteplici relazioni tra gli oggetti e le parole della conoscenza.

Altrettanto indubbia è l’incapacità di trasferire in questo modo, per mezzo di questo genere di mediazione, il sapere e dunque la consapevolezza della relazione esistente tra cose e verbi che le definiscono.

Si creano, infatti, amplificazioni tali da rendere qualunque concepimento di assimilazione insulso ed inutile, più che altro già inutilizzabile.

La velocità con cui avviene l’aggiornamento dei brain frames relativi a notizie ed informazioni assomiglia ad un vero e proprio brain storming che allontana la necessità di accumulare e decantare le stesse per assorbirle e fissarle.

Esperienze che diventano sempre più frequenti ed evidenti al progredire della tecnica, che consente un più comodo e diffuso utilizzo dell’informazione conoscitiva, ma non dell’apprendimento.

Internet, applicato al mondo degli smartphone, è la versione 3.0 della conoscenza digitale, l’accelerazione più cospicua al momento disponibile per una vasta scala di utenti, soprattutto di giovane età, che demandano la necessità di sapere ad una memoria virtuale e sempre accessibile che non richiede sforzo ed è praticamente tuttologa.

Si perde il bisogno di assorbire determinati concetti poiché sono sempre a disposizione di un semplice sfioramento di uno schermo con un rendering ad alta risoluzione che supera la capacità immaginifica di un cervello inutilizzato.

Il possibile rischio connesso è infatti quello di evitare di usare le proprie risorse, poiché le risorse digitali ed elettroniche rendono inutile questo meccanismo che sta alla base del processo cognitivo.

Non si intravede dunque la necessità di complicarsi la vita con elucubrazioni che mettano in moto sinapsi diverse e prevedano il mash up di basi per addivenire al prodotto personale di conoscenza.

Nessuno sforzo, omologazione di conoscenza, omologazione di coscienza?

Questa è una domanda che mi pongo spesso a fronte del fatto che l’altro rischio che pavento è la spersonalizzazione dei bulimici fruitori del mondo della rete, i quali si isolano in comunità virtuali in cui svolgono il quotidiano rito di diventare maschere di se stessi.

Altra parentesi da svolgere nella matematica evoluzione della cultura digitale a questo punto diventa anche la produzione di forme di conoscenza non attendibili, non verificate ed immediate.

Un link accattivante può nascondere bufale che in poco tempo rimbalzano in una platea di amici fino a diventare presunta realtà e che spesso sostituiscono il ruolo storicamente attribuito all’esperienza di vita di personaggi famigliari: nonno Google e papà Facebook assomigliano in maniera preoccupante e realistica ad una sintesi estrema del concetto esposto.

I veicoli informativi e formativi dunque cambiano radicalmente, perdono la fisicità del confronto a fronte della disponibilità ed accessibilità che li caratterizza in un ruolo educativo che volenti o nolenti bisogna loro riconoscere.

Come diceva Nelson Mandela “l’educazione è il grande motore dello sviluppo personale” ma quale pilota guida questo motore virtuale, regolandone la potenza stratosferica al fine di non incappare in spiacevoli incidenti?

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