Un rigo per ricominciare a far scrittura

Bruno Geraci

 

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Il vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi per guardarle. (Marcel Proust)

Se è vero che il web è il luogo fisico della nostra modernità, specchio del nostro tempo, con le sue speranze, sogni e incubi, allora dobbiamo avere la forza di scavare nel profondo per capire meglio. Certo, abbiamo guadagnato in termini di aggiornamento e di ricerca. Ma abbiamo perso la conoscenza, abbiamo smarrito quella terra di nessuno senza punti di riferimento in cui bisogna perdersi per trovare le cose.

Abbiamo smesso di attraversare i deserti senza una precisa direzione, perché ormai dobbiamo arrivare subito. Siamo diventati tutti turisti della cultura e ci siamo dimenticati di essere dei viaggiatori, per i quali la conoscenza è una terra senza sentieri.

Oggi uno dei tanti dilemmi è: per i nostri ragazzi un motore di ricerca sostituirà papà, mamma, i nonni?

E’ un problema reale, molto serio e fino ad oggi sottovalutato: i giovani tendono a padroneggiare completamente un alfabeto che non solo gli anziani, ma spesso neppure i genitori e la scuola sanno usare in modo evoluto.

E’ vero, non si può ridurre tutto a tecnica, computer e smartphone: ma se non parli quella lingua non puoi dialogare con loro.

Il rischio è che si ribalti definitivamente la simmetria sulla quale si basa la relazione educativa: un anziano che insegna, un giovane che impara.

Di più. L’ignoranza del nuovo alfabeto può aggravare quella sorta di cortocircuito, di autentica “emergenza” educativa per effetto della quale la famiglia delega il proprio ruolo educativo alla scuola, una scuola che non lo accetta.

La tecnica non è tutto, ma conta. Nella complessità del fenomeno sono dettagli, però fondamentali. Particelle elementari di una nuova grammatica.

Il web, come insegna Melvin Kranzberg “non è ne’cattivo, né buono e neppure neutrale”. Non è l’arma degli oppressi, ma il campo di battaglia, la scena su cui, lo si voglia o no, noi viviamo la nostra vita.

Importante è non abdicare alla nostra centralità, al saper essere sempre soggetti, mai oggetti.

Solo chi avrà valori solidi in testa avrà nella rete un alleato. E’ vero, tutti noi siamo vasi di argilla, fragili e poveri, ma nei quali c’è il tesoro immenso che portiamo.

La rete è una formidabile opportunità, ma non la verità. E’ solo un mezzo, il fine dipende da noi. Il rischio è, nel migliore dei casi, il pressapochismo, figlio della dabbenaggine; nel peggiore, la manipolazione, figlia della malafede.

Il pericolo maggiore sta in un internet profondo, in quella zona d’ombra dove i nostri dati, l’identità, la privacy sono in balia di gruppi con non molti scrupoli e attenzioni. La dimensione problematica della rivoluzione digitale è oramai un tema ineludibile che va compreso all’interno delle più generali dinamiche dell’evoluzione tecnologica.

Ma il vero obbiettivo è contribuire a contrastare – non semplicemente riducendolo o esorcizzandolo – il crescente sospetto nei confronti della Rete e delle sue potenti tecnologie e il timore che le sue promesse non possano essere mantenute.

Il tema non è recente ma, nell’ultimo periodo, la sua rilevanza è cresciuta con vigore. Le inesattezze e falsificazioni delle enciclopedie digitali, il potere sotterraneo e avvolgente di Google, la fragilità psicologica indotta dagli universi digitali, il finto attivismo politico digitale svelato dall’espressione click-tivism, il diluvio incontenibile della posta elettronica, il pauroso conto energetico dei data center, i comportamenti scorretti dei nuovi capitani dell’impresa digitale sono solo alcuni dei problemi che stanno emergendo, con sempre maggiore intensità e frequenza, non fermandosi alla superficie, spesso luccicante ma ingannevole.

Per cogliere gli innumerevoli aspetti positivi e contenere – nel contempo – quelli negativi, serve dunque una cultura digitale costruita grazie a un vero e proprio approccio multidisciplinare.

Se non si parte dalla creazione e diffusione di una vera e propria cultura relativa a un fenomeno così complesso, ogni addestramento tecnico, ogni alfabetizzazione, risulta completamente inefficace.

Per questo è fondamentale l’importanza della letteratura, che – tra le sue innumerevoli doti – è anche un formidabile aiuto per capire meglio l’uomo e le sue dinamiche.

Per sapere. Poiché la tecnologia digitale è un potente agente trasformativo, pone infatti una questione antropologica: come si trasforma l’uomo nell’era della rete?

Per questo la grande letteratura può essere d’ausilio. Come ha infatti osservato il critico letterario Harold Bloom in un famoso articolo su Harvard Business Review rivolgendosi ai manager: «Poiché vi occupate di uomini, leggete i classici che l’uomo lo hanno costruito».

Anche il linguista Noam Chomsky è rimasto affascinato dal potere eterno della letteratura in questo nostro tempo: «È decisamente possibile – assolutamente probabile, si potrebbe pensare – che si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica».

Bloom ci ricorda che la letteratura è anche uno strumento validissimo per prepararci a gestire l’inatteso, a convivere con l’incerto: “Credo che la letteratura sia portatrice di una fondamentale verità riguardo al cambiamento: il vero cambiamento si origina sempre dall’inatteso, sia esso derivante da una nuova conoscenza di se stessi o imposto da eventi esterni”.

Leggendo la grande letteratura immaginativa, ci possiamo preparare alla sorpresa e anche acquisire una sorta di robustezza che ci rende capaci di accogliere con piacere l’inatteso e trarne addirittura beneficio.

Tutti fanno ironia sulla dipendenza dal web, sulla schiavitù dai social network. Sono stata scritte pagine e pagine sulla nostra incapacità di vivere senza un telefonino, di spegnere tutto e rimanere soli.

“Ci sta accadendo – scrive Roberto Cotroneo – che viviamo solo di sentimenti raccontabili: quelli che si possono dire in un social network, in un messenger, o in un sms. In una parola: quelli verbalizzabili. Stiamo via via perdendo la nostra capacità di comprendere ed intuire le cose, perché stiamo spostando sui linguaggi digitali ogni forma di coinvolgimento, di attesa, di sensazione, di visione del mondo”.

Negando quei sentimenti che i neurologi considerano tipici di quell’area del cervello che si chiama amigdala. Là arrivano gli impulsi più arcaici, là sentiamo le cose che non si possono raccontare e persino le cose che non si possono vedere.

“Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà”. Praticamente esordiva così, nel suo discorso per l’accettazione del premio Nobel, il 12 dicembre 1975 all’Accademia di Svezia, Eugenio Montale.

Ma dopo tale ironico “auto da fè”, ecco che Montale comincia a raccontare della parola come suono, come forma architettonica e anche come “cosa” da guardare con gli occhi.

Non vorremmo mai dimenticare l’importanza di un “inutile” che diventa felicità, forma trasmessa, fuoco verbale, tocco sonoro, e anche piaga, anche confessione, anche lacerto e biopsia viscerale.

Da anni ormai la prosa e la poesia tentano di allineare parole stoicamente consapevoli della novella impotenza che imbavaglia la civiltà della scrittura. E le parole allora debbono scorrere come nastri variamente incorporati, come briciole di dottrina ammonitoria, come scorie di un vocabolario che si è disintegrato tra terremoti e uragani prodotti dalla nuova era digitale.

La parola, costretta a muoversi come un serpente, come un riflesso, come un elettrocardiogramma sonoro, tende a farsi asciuttissima, quasi nemica alle altre parole che la precedono e la seguono.

Tende ad essere sola, unica, abbattendo gli argini di un discorso articolato, incorporando i vecchi e ben noti lamenti umani entro una gabbia di spietatissima severità lessicale.

Ma è solo così che, al tempo di Internet, si ricomincia a far scrittura. Reinventando non solo una sillaba, una parola, ma il rigo (di quaderno, di computer?) dove quella sillaba e quella parola devono cadere e creare echi. E’ solo così che si paga, umanamente, il dolore e si tenta, ansiosamente, un gioia rimasta.

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